ECUADOR, LA MITAD DEL MUNDO
Per chi arriva dalla Colombia la porta del Paese è Tulcan, sulle Ande. Dopo centinaia di chilometri di Panamericana , camion in coda di giorno e banditi in agguato di notte, finalmente l’Ecuador: terra di vulcani e piranha, banani e pappagalli, incastrata tra la giungla amazzonica e l’Oceano Pacifico.
Alla frontiera di Tulcan, lato colombiano, le pareti sono tappezzate dalle foto delle persone scomparse. Soprattutto militari rapiti dalle Farc e nascosti chissà dove nella giungla. Dal lato ecuadoriano i cartelli governativi parlano chiaro: «Non portare le valigie a nessuno». Il narcotraffico non scherza, per cui niente gentilezze.
Otavalo è a tre ore di bus e vanta uno dei principali mercati del Sud America, il mercato dei poncho. Gli indios affollano le vie della cittadina, cappelli sulla capigliatura bruna avvolta in una treccia, vesti di lana variopinta, le donne con i bambini imbragati sulle spalle.
A soli 110 chilometri, Quito. Seconda capitale più alta del mondo, a 2850 metri d’altitudine, ha un centro storico coloniale ben restaurato, i prati dei monti che la circondano invasi dalle favelas e un po’ di pericoli quando tramonta il sole. Una funivia buca nuvole e inquinamento e porta sul vulcano Pichincha (4600 m.), a mezz’ora dalla città c’è “La Mitad du mundo”, una riga gialla avverte che lì passa l’Equatore.
Ovunque si vada dopo Quito si scende. Per raggiungere l’oceano si vede un Ecuador molto più polveroso, trasandato, povero. In ogni villaggio gli abitanti rincorrono i bus per vendere “pan di jucca” o “agua hielada”. Portoviejo, capoluogo del Manabi, è una città squallida e afosa, con motociclette impazzite per le strade e fili della luce appoggiati ai pali. Manta, principale porto del paese, ha ristoranti sull’Oceano e alcune difficoltà a trovare alberghi senza tariffa a ore. Meglio la costa a sud, selvaggia e deserta, con chilometri di spiagge e onde per i surfisti.
Proseguendo verso sud, finalmente, con un po’ di timore, Guayaquil. “La Napoli dell’Ecuador”, capoluogo del Guayas, quattro milioni di abitanti. Una metropoli con grattacieli scintillanti e guardie private a proteggere i negozi del centro, viali di alberi e palme equatoriali, un fiume enorme d’acqua grigia. Suv giapponesi che sorpassano Chevrolet anni ’80, autobus scassati da milioni di chilometri che sbuffano fumo nero. Guayaquil è una città moderna e sovraffollata, circondata da una periferia povera e pericolosa che copre le colline circostanti, invase da case di lamiera, spazzatura e cani randagi. Nel 2005 vantava 50 rapine a mano armata al giorno.
Sugli altipiani dell’Ecuador centrale si trovano i paesaggi più spettacolari del paese. A 3900 metri d’altezza, tra i lama e gli indios che zappano la terra, si nasconde la “Laguna di Quilotoa”, lago turchese dai riflessi smeraldo. Nascosto nel cratere di un vulcano spento, la popolazione quichua che ne abita le pendici racconta sia senza fondo. Gli indios affittano le stanze gelide delle loro case ai turisti, riuniti di sera nell’unico bar a bere the di coca e aiutare i bambini del villaggio a fare i compiti di inglese.
Il viaggio per rientrare in Colombia è faticoso e indimenticabile. Ore di montagne e curve, la frontiera di Tulcan che apre alle sei di mattina avvolta dalla nebbia. La raccomandazione degli ecuadoriani a chi viaggia nel loro paese è solo una. “Mangia tantissimo pesce!”. Nei mercati, profumato e freschissimo, o al ristorante, fritto o marinato nel limone con cipolle e pomodori.
In un paese come l'Ecuador, dove la gente è sempre allegra e la musica latino americana suona in ogni momento della giornata, l’unico rischio è desiderare di ritornarci. E di ritrovarsi sulla spiaggia a mangiare aragosta senza nemmeno guardare il mare, troppo intenti a odiare la gazzosa calda che nessuna preghiera ha tramutato in vino bianco.