TAGLIATELI LA TESTA!

Finivano quasi tutte con la decapitazione le avventure dei pochissimi italiani che arrivavano nei misteriosi khanati dell’Asia centrale nel ‘700 e nell’800. Dopo un ‘900 di diffidenza verso i forestieri, oggi l’Uzbekistan si visita senza neanche bisogno di un visto.

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Del primo italiano che in epoca moderna si spinse fin là, era il ‘700, sappiamo che cercava miniere d’oro e per poco non venne decapitato. Del secondo, un orologiaio parmense, conosciamo la data dell’esecuzione: 1851. Nello stesso periodo finì così il viaggio di un soldato di ventura, e ci mancò poco che non si tramutasse in strage la spedizione di quei setaioli lombardi che sognavano i bachi da seta dell’Asia centrale. D’altronde, per secoli, chi azzardava un viaggio nell’odierno Uzbekistan ignorava la sua probabile fine: la cella, in attesa del boia.

Suona esotico sin dal nome l’Uzbekistan, con quelle storie ai più ignote fatte di satrapie e khanati, favolose ricchezze e violenze inaudite. Oscure come i suoi emiri, padroni di deserti attraversati per secoli e secoli da tribù nomadi, carovane ed eserciti: prima lungo la via della Seta che collegava l’impero romano a quello cinese, poi in quella distesa disabitata tra il mondo russo e la Persia.  Duecento anni fa il pianeta era cosa nota, l’Asia centrale ancora no. Le potenze mondiali inviavano emissari mascherati da pellegrini o mercanti per mappare fiumi, monti, pianure, forti, villaggi. Pochissime le città. La mitica Samarcanda aveva perso potere e splendore; trecento chilometri più a ovest regnava Bukhara, cinquecento chilometri dopo la città di Khiva. Entrambi i khanati sarebbero resistiti sino all’avvento dell’Urss: medievali, violenti, tremendamente isolati. E proprio per questo raggiunti solo dai viaggiatori più intrepidi dei secoli scorsi.

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I primi italiani che vi lasciarono tracce furono nel XIII secolo i mercanti veneziani Niccolò e Matteo Polo, padre e zio del più celebre Marco che scrisse “Il Milione”; un secolo dopo fu la volta del missionario Odorico da Pordenone, autore di una memorabile traversata per portare il cristianesimo a oriente. Dovranno passare cinquecento anni prima di avere una nuova testimonianza, il diario del letterato Florio Beneveni. Originario della Ragusa dalmata, oggi Dubrovnik in Croazia, Beneveni viveva alla corte dello zar Pietro il grande. Tra il 1721 e il 1725 esplora da ambasciatore i khanati di Bukhara e Khiva, come racconta negli scritti studiati dal ricercatore Nicola Di Cosmo. «Quella parte di mondo è sempre stata una terra di conquista e di passaggio. Ma nel XVIII secolo i russi danno un ulteriore impulso ai viaggi», spiega Di Cosmo, professore all’Istituto di studi avanzati di Princeton. «L’obiettivo era verificare la leggenda delle miniere d’oro nascoste tra i deserti dell’Asia centrale».

Florio Beneveni parte nel 1718, attraversa il Caucaso e la Persia, soffre la fame, si ritrova senza cavalli e senza soldi, è minacciato dai briganti turkmeni. Quando nel 1721 raggiunge Bukhara sa cosa deve fare: convincere l’emiro a sottomettersi, aprire rotte commerciali e scovare quei giacimenti aurei tanti cari agli zar. La situazione invece precipita, rimane bloccato nella zona per anni. Ma tra onori diplomatici, accuse di spionaggio e tentativi di essere fatto fuori riporta a casa la pelle. Deve passare un secolo prima che metta piede in Asia centrale l’orologiaio Giovanni Orlandi, partito con un trafficante che gli promette ricchezza in Siberia e invece lo vende come schiavo a una banda di predoni kirghisi. A Bukhara realizza per l’emiro un cannocchiale e l’unico orologio pubblico della città, ma un qualche sgarbo segna la sua fine: nel 1851 gli tagliano la testa. Il soldato Florio Naselli arriva lì in quel periodo. Sogna una rapida carriera militare, e invece qualcuno che vede in lui un rivale risolve la faccenda al solito modo.

La decapitazione è la stessa fine toccata anche a Charles Stoddart (1806-1842) e Arthur Connolly (1807-1842), probabilmente i due viaggiatori in Uzbekistan più celebri di tutti i tempi. Dopo mesi passati in una cella sotterranea piena di topi una mattina si trovano nella piazza davanti alla residenza dell’emiro di Bukhara, inginocchiati, con le braccia legate dietro la schiena. «Sporchi, emaciati, il corpo coperto di piaghe, barba, capelli e vestiti brulicanti di pidocchi», scrive lo storico inglese Peter Hopkirk nel romanzo Il grande gioco (Adelphi, 1990). Stoddart e Connolly erano ufficiali britannici, spie di un Regno Unito che contendeva ai russi il dominio dell’Asia centrale: i loro resti giacciono in un sepolcreto dimenticato sotto la piazza dell’Ark, ora una delle attrazioni principali della città.

A distanza di duecento anni la storia sanguinaria di Bukhara è solo una suggestione, sostituita dalla cortesia con cui gli abitanti fermano i turisti per scattarsi un selfie. La città è una tappa imperdibile di un viaggio in Uzbekistan, anche se nella battaglia estetica con Khiva e Samarcanda è dura trovare un vincitore. Per taluni Samarcanda «è la più monumentale», per altri le sue attrazioni sono gli unici punti interessanti di una città «troppo sovietica». Khiva e per i più «un gioiello», ma anche «una città-museo», «fasulla nella sua perfezione». Bukhara vede tutti d’accordo: maestosa, elegante, storica in ogni pertugio. «Mostra com’era l’Asia centrale prima dell’arrivo dei russi», si sente spesso dire. Perché gli abitanti, a parte automobili e wi-fi, vivono oggi come allora tra medresse e minareti, vasche dell’acqua, bazar, venditori di tappeti e abiti di seta.  

È proprio quest’ultima industria da sempre protagonista nella vita del Paese a ispirare, in epoca moderna, le prime spedizioni commerciali degli italiani in Asia centrale. Sono almeno 16 quelli che tra il 1859 e il 1870 si spingono in Uzbekistan per cercare una soluzione all’epidemia dei bachi che in quel momento colpisce l’Europa.  «Sono imprenditori lombardi e piemontesi», spiega il professore Claudio Zanier, che ha raccontato la loro storia nel libro Setaioli italiani in Asia (Cleup, 2008). «I primi avventurieri partono dalla città russa di Orenburg. Viaggiano su carretti trainati da cavalli per circa due mesi, di notte e di giorno. Ma il loro obiettivo di arrivare a Bukhara fallisce». Nel 1863 la spedizione diretta da Ferdinando Meazza va alla ricerca delle uova dei bachi, ma di Bukhara i setaioli vedono soprattutto le carceri. Nel 1869 un’altra comitiva passa addirittura dalla Siberia. «Questa volta il tentativo di mettere in piedi delle coltivazioni di bachi viene boicottato. E alla fine il mercato punta sul Giappone».

Passano i decenni: gli emiri sono spazzati via dalla storia, l’economia feudale dei khanati diventa comunismo e l’Uzbekistan resta un terra inospitale. Ne sa qualcosa l’alpino di Spezia Orando Bocchi (1921-2015), catturato dai russi durante la guerra e deportato «in un luogo lontano e pianeggiante a coltivare il cotone» raccontava lui stesso, che per tutta la vita ha ignorato dove fosse finito. Grazie al professore Giorgio Neri ha ricostruito la sua avventura nel libro Il ricordo di un alpino (Moderna Edizioni, 2013), a partire dai giorni di viaggio in treno nella steppa e dagli anni passati in un campo di lavoro con canali di irrigazione a perdita d’occhio. «Al mattino ci davano 600 grammi di pane di segala, con ciotola di zuppa di verdure, legumi e cereali compreso il riso nero – raccontava Orando - A mezzogiorno il solito pasto con meno pane. Alla sera, la cena rimarcava la colazione del mattino». Orando vive senza contatti con l’esterno dal 1942 al 1945, quando con la fine della guerra viene caricato su un treno e ritorna a Spezia, pronto per una vita da camionista.

Passano ancora trent’anni, la dittatura è sempre lì ma per l’Uzbekistan è tempo di una novità memorabile: il turismo. Nel 1976 la futura professoressa genovese Vanda Medusi partecipa a un viaggio nelle Repubbliche asiatiche dell’Urss. Insieme al gruppo di amici con cui studia a Mosca scopre un mondo antico intrecciato alle paranoie di regime. «La nostra guida era concentrata esclusivamente su monumenti e musei - ricorda - In una piazza non voleva guardassimo dei saltimbanchi che giocavano con il fuoco. Per lei si trattava di roba antica, popolare». Tra mercati, spezie, alberghi vetusti e cibi scadenti, la sua esperienza è indimenticabile. «Negozi non ce n’erano, automobili in strada nemmeno. Non abbiamo incontrato altri occidentali in una settimana di viaggio».

Tempo ancora trent’anni e l’Uzbekistan vive un’altra rivoluzione, impensabile. Gli stranieri in visita di piacere diventano protagonisti nella vita del Paese. Secondo i dati della Banca Mondiale nel 2009 sono arrivati 560 mila turisti internazionali, quintuplicati a 2 milioni 690 mila nel 2017. Non solo: nonostante un visto caro e difficile da ottenere l’Uzbekistan diventa la terra di passaggio prediletta per chi partecipa al Mongol Rally, manifestazione che consiste nel raggiungere la Mongolia dall’Europa con un mezzo poco prestante. È lunga la lista dei partecipanti italiani. Dieci anni fa il padovano Umberto Marinello ha attraversato l’Uzbekistan in Vespa con un gruppo di amici; lo scorso agosto hanno seguito le sue orme i milanesi Luca Colnaghi, Federico Gavazzi e Marco Viganò, a bordo di una Fiat Panda del ’98 che per colpa di una benzina sbagliata nella città di Moynaq si rompe. «Gli uzbeki del posto ci hanno salvato», raccontano. «Prima hanno trainato l’automobile nella città più vicina. Poi l’hanno caricata su un camion per mille chilometri, sino a Taskhent». Nelle due settimane di attesa del meccanico, della capitale i tre sperimentano tutto: hamburgherie, pub, birre, mercati, treni ad alta velocità, bowling, partite allo stadio. «Come avremmo fatto in una moderna città europea».

Trascorrono ancora sei mesi. Le sfide ai tagliatori di teste sono memoria del passato, le ore perse in burocrazia e adempimenti per viaggiare invece bruciano ancora. Ma basta una firma dei governi per cambiare tutto: ed ecco il primo febbraio 2019 l’ennesimo stravolgimento, questa volta epocale. L’Uzbekistan apre le frontiere ed elimina i dazi per i cittadini di 45 Stati del mondo, cancellando in un colpo solo secoli di diffidenza verso i forestieri. Il nuovo pioniere nostrano vola su un aereo dell’Uzbekistan Airways, atterra all’una di notte nell’aeroporto Islom Karimov di Taskhent ed è accolto con strette di mano, regali, sorrisi. Si chiama Massimo Giglio. Ha gli occhiali, i capelli grigi, il capotto nero. E un posto d’onore nella storia: è il primo italiano a metter piede in Uzbekistan senza bisogno di un visto.

(Meridiani, marzo 2019)