ANDALUSIA, LA FRONTIERA LIQUIDA
Unisce e separa l’est e l’ovest, il nord e il sud. Definita dallo stretto di Gibilterra o dalla Banda Morisca, l’Andalusia e il suo ricchissimo patrimonio culturale sono il risultato di secoli di incontri e coabitazioni.
Quattordici chilometri d’acqua, il segreto è tutto lì. In uno scherzo della geografia che divide i continenti: Mediterraneo a destra, Atlantico a sinistra, Europa in alto, Africa in basso. Per cinque milioni di anni, nello stretto di Gibilterra non era cambiato nulla. In giorno d’aprile del 711 cambia tutto: migliaia di guerrieri arabi e berberi attraversano quel pezzetto di mare e l’Islam si lancia alla conquista della penisola iberica. Ci riesce. Nascono emirati, moschee, giardini. In questa terra dal cielo terso già popolata da fenici, cartaginesi e romani fioriscono città opulente e una cultura tra le più ricche d’Europa, dove le tre religioni monoteiste si intrecciano e la frontiera ha la sua casa. Sette secoli dopo gli invasori se ne torneranno al di là del mare da dove erano arrivati, ma nulla sarà più come prima. Lasceranno in dote una penisola meticcia nell’animo, con minareti addobbati a campanili, la contaminazione di musiche, costumi, cibi, dialetti. E un nome esotico che sa di radici lontane, e che ancora oggi ammalia a distanza di secoli: al-Andalus.
È di frontiera anche il nome in Andalusia, versione ispanica di due parole arabe che ne raccontano l’essenza, «la terra della luce». Qui il sole splende tutto l’anno, d’estate spacca i sassi e di pomeriggio obbliga al riposo. Gli andalusi ne hanno fatto uno stile di vita, basta cenare dopo il tramonto e far festa di notte, dov’è il problema? La regione più popolosa della Spagna è fatta apposta per tirar tardi e aspettar che l’aria si rinfreschi, d’altronde qui c’è tutto quello che si desidera: spiagge, campagne, altipiani, fiumi, boschi, una delle città più antiche del mondo, addirittura un deserto e una sorta di colonia inglese. Ma soprattutto, un paesaggio ora arido ora montuoso, che arrivato al bordo meridionale della costa mostra uno spettacolo unico nel continente: il profilo frastagliato dell’Africa all’orizzonte.
Quei 14 chilometri di onde sono stati considerati per secoli il limite del pianeta, con un paesaggio troppo bello da sembrar terreno che non a caso è diventato mito. Si spinse fin là Ercole, il semidio che campeggia nel simbolo dell’Andalusia perché sconfisse creature mostruose e separò l’Africa dall’Europa. Per celebrare le sue gesta eresse due colonne all’ingresso dello stretto, limite geografico dell’oceano e della conoscenza. Abila, a sud, secondo la tradizione è Jebel Musa in Marocco, 839 metri a picco sul mare. Calpe, a nord, è la rocca europea dove il condottiero berbero Tariq era sbarcato con l’esercito nel 711, pronto a conquistare il mondo cristiano e intitolarsi il monte che gli aveva dato riparo: il monte di Tariq, Jabal-al-Tariq. Ovvero, Gibilterra.
La missione di Tariq è più facile del previsto, la potenza della regione chiamata Betica dai romani è solo un ricordo. Poco importa che lì nacquero Seneca, Adriano e Traiano: i visigoti che la abitano sono piegati dai guerrieri nordafricani in pochi anni. Per prima tocca a Siviglia, subito dopo è la volta di Cordova. Nel 712 arabi e berberi sono già a Toledo. Cadono l’Aragona, la Catalogna, i Pirenei. L’avanzata trionfale verso nord si ferma nel 732 nella cittadina francese di Poitiers, resa celebre dal Carlo Martello di De André e dalla battaglia che mille anni dopo sarebbe diventata simbolo della resistenza cristiana in Europa. Da quel momento, nella penisola iberica, la controffensiva spagnola per respingere la frontiera al di là del mare diventa l’epopea di un popolo che per otto secoli cerca di riprendersi la sua terra.
Quando nel XIII secolo il dominio musulmano si riduce al regno di Granada la zona di confine con i regni cristiani di Jaén, Cordova e Siviglia prende il nome di Frontiera Granadina, nota anche come La Banda Morisca. Ancora oggi sono tanti i nomi di città o villaggi che vi fanno allusione. Il più famoso è Jerez de la frontera in provincia di Cadice; in provincia di Malaga c’è Cortes, in quella di Cordova Aguilar, in quella di Siviglia Moròn. Il 2 gennaio del 1492 secoli di dominazione crollano in un soffio. L’ultimo re della dinastia dei Nasridi, Boabdil detto Abu ‘Abd Allah, fugge da Granada e secondo la leggenda si volge per un’ultima volta a guardare la città. «Piangi come una donna – lo avrebbe apostrofato la madre - perché non hai saputo difendere il tuo regno come un uomo». Ferdinando II d’Aragona e sua moglie Isabella di Castiglia prendono possesso dell’Alhambra e del palazzo del Generalife, ma il desiderio di dare un’impronta cristiana è mitigato dall’ammirazione per un’architettura islamica che mozza il fiato. La moschea di palazzo viene convertita in chiesa come già accaduto alla Mezquita di Cordoba, ora cattedrale, o alla Giralda di Siviglia, minareto reso torre campanaria. L’araba al-Andalus è pronta a diventare la spagnola Andalusia.
«Il frutto dell’incontro tra la cultura barbara ed eurasiatica, berbera e araba, sefardita ed ebraica», spiega lo storico Franco Cardini, professore emerito di storia medievale nella Scuola Normale Superiore di Pisa e autore del libro Andalusia. Viaggio nella terra della luce (Il Mulino, 2018). «L’intreccio di culture in Andalusia infatti è ovunque, non solo nelle strutture religiose. Basti pensare alla lingua: lo spagnolo è come il siciliano, pieno di parole e costrutti arabi. E così anche la letteratura araba influenza quella spagnola, compresa la poesia d’amore. Lo stesso vale per la musica, il ballo, le tradizioni folcloriche e artigianali, i modi di tessere, incidere i metalli, l’agemina delle armi. Altre usanze sono poi filtrate dalla tradizione gitana, ma tante usanze credute gitane sono in realtà di origine magrebina».
La convivenza tra le due culture in Spagna però non è semplice. L’economia sotto la dominazione cristiana muta, perché dall’agricoltura si passa alla pastorizia, mentre le poche libertà religiose vengono annientate. Per i dominatori musulmani i cristiani e gli ebrei erano considerati infatti cittadini di serie b, ma comunque titolari di diritti. Con il potere ai cristiani non sono invece ammesse religioni differenti. «C’erano solo due soluzioni: andarsene o convertirsi», continua il professore Franco Cardini. «E’ così nacquero i moriscos e i marranos, i musulmani e gli ebrei che dopo il 1492 sono forzati ad abbracciare la religione cristiana. Spesso si trattava di conversioni fasulle, la gente praticava il proprio culto di nascosto: per questo motivo le tradizioni musulmane sono sopravvissute in Andalusia».
Nei tre secoli a venire il mondo diventa terra di conquista e l’Andalusia il porto da cui salpare: da Palos de la Frontera parte Cristoforo Colombo per andare in America, a Siviglia prende casa il navigatore fiorentino Amerigo Vespucci. Da Cadice passa pure Francis Drake, canaglia al servizio della corona britannica che nel 1857 mette a segno una delle rapine più affascinanti della storia. Il 29 aprile Drake irrompe nella baia, affonda la flotta spagnola e si porta via 2.900 barili di sherry, il vino liquoroso che in Spagna è detto jerez. Dopo duecento anni di saccheggi in Sudamerica, nell’Ottocento la penetrazione economica e militare della Spagna si rivolge al Marocco e con il fiorire dei commerci si azzarda l’impensabile: unire quelle due coste che da sempre si guardano a distanza.
La prima idea di un ponte tra Europa e Africa viene concepita da un ingegnere francese nel 1869 e poi ribadita dagli spagnoli nel corso del Novecento, ma per decenni ogni tentativo è abbandonato per ragioni tecniche e finanziarie. Alla fine del Novecento la svolta, gli studi compiuti tra gli anni ’80 e ’90 stabiliscono che non esistono ostacoli geologici per la costruzione di un legame tra i due continenti. Ci sono trivellazioni e progetti pilota, nel ‘96 si scarta l’ipotesi del ponte a favore del tunnel, Onu e Consiglio d’Europa seguono la vicenda con interesse per motivi geopolitici ed economici: la saldatura euro-africana è a un passo. «Il treno ad alta velocità collegherà Siviglia a Tangeri in un’ora e mezza», si leggeva sulla stampa internazionale nel 2007, quando si azzardava una data per la fine lavori: il 2025. La storia è andata diversamente, con il progetto di un collegamento fagocitato dalla crisi economica e dal timore del terrorismo islamista.
L’ondata migratoria dall’Africa all’Europa renderebbe ora il progetto improponibile politicamente, anche se in realtà l’Andalusia è sempre stata un confine liquido, tappa strategica nel passaggio di essere umani dai tempi dei fenici. Per tutti gli anni ’90 del Novecento e i primi anni del Duemila il viaggio in barca lungo lo stretto è stata un’avventura possibile, con i migranti che tentavano la fortuna nascosti sotto i sedili delle automobili e nei cassoni dei camion. E proprio per la confusione nella frontiera tra Europa e Africa il passaporto spagnolo è ancora oggi tra i più falsificati dell’Ue. «D’altronde lo stretto di Gibilterra non è un confine come un altro», spiega Steven Forti, professore di storia contemporanea nell’Università autonoma di Barcellona. «Con l’eccezione di alcune isole greche, quella tra Spagna e Marocco è la frontiera marittima più vicina tra l’Europa e un altro continente. Ed oltretutto è la frontiera dove c’è maggiore disparità di ricchezza. Con la chiusura della rotta libica e balcanica, l’Andalusia è diventata la porta di ingresso in Europa».
Nel 2018 sono sbarcati in Spagna quasi 60 mila migranti, il doppio rispetto al 2017; per fare un confronto, nel 2018 gli sbarchi sono stati 33 mila in Grecia e 23 mila in Italia. La porta dell’Andalusia è però addirittura un portone, per chi si sposta per piacere. In una Spagna che ospita 80 milioni di turisti ogni anno (secondo Paese al mondo dopo la Francia), l’Andalusia nel 2017 ha toccato il record di 30 milioni di turisti di cui 12 milioni stranieri: secondo i dati della Banca Mondiale sono più dei visitatori che raggiungono Grecia e Giappone, il doppio dell’India. Le ragioni del successo sono tante: il clima, la convivialità, l’identità culturale, il cibo, la storia, le spiagge, i prezzi. A causa di questa invasione l’Andalusia combatte una battaglia per invogliare le persone a non affollarsi ad agosto sulle spiagge di Tarifa e nei monumenti di Siviglia, ma a visitare la festa del Jamon Iberico nella Sierra de Aracena a ottobre o il carnevale di Cadice a febbraio. Malaga è tra i protagonisti del progetto europeo AlterEco, che con città come Dubrovnik, Genova, Venezia e Valencia punta a un turismo sostenibile che valorizzi l’identità mediterranea: studia itinerari alla scoperta del patrimonio industriale, dei luoghi dei marinai o dei quartieri degli artisti. Pablo Picasso è sicuramente il più noto di Malaga e dell’intero Paese, ma quelli delle altre città non sono da meno: a Siviglia nacque il pittore Diego Velasquez, a Cadice il compositore Manuel de Falla, a Linares il chitarrista Andrés Segovia, a Granada il poeta Federico Garcia Lorca.
Per un Andalusia capace di dare alla Spagna i suoi più grandi artisti è quindi un gioco da ragazzi fornirle tutti gli stereotipi: il sole, il caldo, la siesta, le corride, il flamenco, la carnagione olivastra, il gazpacho, le notti brave. E la sangria, la bevanda color sangue per alcuni nata tra i contadini spagnoli e portoghesi nell’Ottocento, per altri un secolo prima tra i marinai inglesi. Ma già da tempo in Andalusia esisteva l’usanza tanto cara agli arabi di mescolare il succo dei frutti che nascevano nelle loro terre, arance e limoni, pesche, melograni. Un’usanza poi declinata con quella sapienza tutta cristiana che ha reso la sangria immortale, e per cui il popolo estivo ancora ringrazia gli ignoti inventori: via il succo di melograno, ché il colore rosso viene ancor più brioso quando a tingerlo è il vino.
(Meridiani, maggio 2019)
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