Azerbaijan, tra grattacieli e pastori

I grattacieli spuntano in mezzo al deserto, una terra gialla e rugosa solcata da autostrade e schiere di casette basse che arrivano sino al mare. Dall’alto l’aeroporto di Baku sembra una freccia argentata, ed è proprio come la città: futuristico, pretenzioso, scintillante. Favoloso ingresso per un Paese che vive da dieci anni una crescita vertiginosa, monumento a una ricchezza firmata gas e petrolio.

Baku è la metropoli più grande e cosmopolita del Caucaso meridionale, un ingorgo lungo chilometri dove malconce auto sovietiche sono bloccate nel traffico insieme a Suv fiammanti, circondati da palazzi russi tirati a lucidi e strade pulite come un salotto. Per chi ha tanti soldi Baku è come un lunapark, per chi viaggia in economia una corsa a ostacoli. L’unica scelta è prenotare una stanza in anticipo, visto che ostelli e pensioncine sono praticamente inesistenti. Anche mangiare (a poco prezzo) può risultare problematico: prima di trovare un kebab si sorpasseranno hotel di lusso, boutique esclusive, negozi di design e concessionari della Ferrari. Il palazzo del Soviet, color sabbia, è proprio in riva al Mar Caspio e alle sue acque dai riflessi smerigliati di petrolio. Le strade sono enormi, con Maserati e Aston Martin che sfrecciano come fossero in pista senza badare ai semafori. La città antica è patrimonio dell’Unesco ed è sormontata dai grattacieli più folli della città, le Flame Towers: tre torri a forma fiamma che appena scende il tramonto si illuminano e diventano color del fuoco.

Nella penisola di Abseron, nella periferia di Baku, appaiono le prime pompe di petrolio. Le più vicine al centro sono nello squallido sobborgo di Suraxani, un quartiere stretto tra la ferrovia e campi deturpati dalle industrie. Scheletri arrugginiti succhiano incessantemente il sottosuolo  e addirittura circondano le abitazioni. L’odore del quartiere è dolciastro e malsano, la tentazione di fotografare è irresistibile ma bisogna fare attenzione perché è vietato e i vigilanti dei campi sono inflessibili. Se si prosegue verso nord il paesaggio si fa apocalittico, con plotoni di derrick (le torri di perforazione), tralicci, fabbriche dismesse e ciminiere su terreni avvelenati da scorie e rifiuti.

I centri abitati sono pochi sino a Quba, una cittadina vicino alla frontiera con la pericolosa provincia russa del Daghestan. Quba è famosa per la produzioni di tappeti e la coltivazione delle mele, come si capisce dai tanti venditori con le ceste colme ai lati delle strade. Tra le vallate popolate da pecore e pastori i paesaggi si fanno grandiosi e le alte montagne del Grande Caucaso circondano l’orizzonte con vette spigolose e innevate. L’antico paesino di Xinaliq, 2335 metri sul mare (il più alto di Europa, se si considera l’Azerbaijan parte del continente) è a una cinquantina di chilometri da Quba. E’ importante calcolare almeno due ore di tornanti da percorrere in jeep, tra gole rocciose che si sgretolano sulla strada e salite inverosimili. Gli abitanti di questi monti inseguono le poche automobili di passaggio per vendere miele, sciroppo di rosa, cipolle e babucce di lana. Il piccolo villaggio di Laza è a una giornata di cammino da Xinaliq ma l’escursione è vietata (come molte altre) e le montagne sono presidiate dai soldati: il confine con la Russia è vicino.

Per visitare qualsiasi altra parte dell’Azerbaijan bisogna ritornare a Baku. I petroglifi e i vulcani di fango di Qobustan sono le destinazioni più gettonate dalle agenzie perché a un’ora di taxi dalla città. Dalla stazione degli autobus di Baku partono i mezzi  a lunga percorrenza sino all’Iran e la Georgia: un viaggio in marshrutka, il furgoncino tipico dei paesi ex-Urss, rende il viaggio veloce ma anche più pericoloso perché gli autisti guidano come pilota di formula 1. In tre ore di paesaggi aridi che si trasformano in colline alberate si arriva a Ismaily, una città brutta e sparpagliata da cui partono i camioncini per le campagne. Il paese più interessante è Ivanovka, un villaggio con case di legno fondato a metà Ottocento da un gruppo di russi fuggiti dallo zarismo perché di religione molocana, una setta del cristianesimo. A Ivanovka si respira ancora l’aria dell’Unione Sovietica, le scritte in russo e i campi comuni levano ogni dubbio.

L’ultima tappa prima di abbandonare l’Azerbaijan è Shaki, cittadina turistica adagiata tra le montagne a due ore dal confine con la Georgia. I ristoranti sono pochi ma preparano i migliori “piti” del Paese, zuppe di ceci e carne cotte nel grasso di pecora.

In cima alla collina le mura della fortezza circondano il Xan Sarai, il Palazzo del Khan  che quando fu terminato nel 1762 era solo uno delle decine nella cittadella. Ora è l’unico sopravvissuto. La facciata è decorata con motivi geometrici blu, turchese e ocra, all’interno la luce filtra dalle vetrate e illumina le pareti di legno intagliate e pitturate con scene eroiche di guerra e massacri. Riporta al Caucaso del passato, quando i russi non erano ancora arrivati e le montagne erano campi di battaglie tra mongoli e persiani. Nel vicino caravanserraglio c’è uno degli hotel più belli di tutto l’Azerbaijan, il settecentesco Caravanserai Hotel, con una giardino interno grande come una piazza e stanze con i soffitti a volta in mattoni di pietra. Appena fuori, di fronte al pesante portone di legno, c’è uno dei tanti ritratti di Heydar Aliyev, l’ex presidente dell’Azerbaijan – padre dell’attuale presidente Ilham – osannato con fotografie giganti e manifesti in tutto il Paese.

Tigre, l'ultimo sfortunato rifugio di Maradona

Situata dove il Paraná diventa Rio della Plata, a 35 km dalla capitale, è la prima area verde oltre la megalopoli. Per i suoi cittadini, nonostante tutto, è un luogo tranquillo. Diego l'aveva scelta per quello

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Barche di legno, canoe, palme, prati, fiori, villette, villoni. E quel fiume color caffè latte, che si insinua e si attorciglia, per chilometri e chilometri, nel delta del Rio Paranà de las Palmas. Eccola Tigre, sobborgo di Buenos Aires, sino alla scorsa settimana meta delle gite domenicali della capitale argentina. Poi, d’improvviso, la ribalta mondiale: perché è qui che mercoledì è morto Diego Armando Maradona.

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Plaza de Mayo a Buenos Aires è a 35 chilometri, la stazione ferroviaria di Retiro a un’ora di viaggio, anche se nulla batte il Tren de la Costa che dal quartiere di Olivos porta a Tigre lungo i binari affacciati sul Rio de la Plata. Ma durante un viaggio in Argentina non ci si finisce per caso, a Tigre. Le guide turistiche sono piuttosto inclementi verso questa zona acquitrinosa tanto amata dalle zanzare, senza monumenti o ristoranti di richiamo per il visitatore straniero, e dove pure il Museo del Mate, con quella collezione da duemila oggetti dedicati alla bevanda nazionale, ha ormai chiuso. Eppure, a Buenos Aires, sono tutti affezionati a questa città da 376mila abitanti, così a misura d’uomo se paragonata alla megalopoli che la ingloba e ne conta 11 milioni.

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«E’ il primo spazio naturale dopo il cemento della città» spiega il professor Sergio Barbieri, docente di scienze politiche dell’Universidad del Salvador a Buenos Aires, autore insieme al giornalista Eduardo Bolaños di quello che potrebbe essere l’ultimo libro su Maradona pubblicato con il calciatore in vita: “Diego, Boca y la magica tarde del 22 de febrero de 1981”, stampato il 19 novembre. Anche loro, come d’altronde tutti nella capitale, sono entusiasti di questa valvola di sfogo a una metropoli che non offre molto in quanto a gite fuori porta. «Tigre permette ai porteños di sfuggire un po’ alla follia di Buenos Aires e di trovarsi in un attimo in un luogo più tranquillo, con una natura esuberante, a volte persino fastidiosa, e la presenza rilassante dello scorrere dell'acqua».

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Ed è proprio la ricerca della calma e del silenzio che negli ultimi anni sta attirando abitanti a Tigre da altre zone della capitale. Diego Armando Maradona abitava nel barrio Sant’Andres in località Benavides, a una decina di chilometri dal Puertos di Frutos che per il turista è la destinazione principale. Il mercato è un tripudio di frutta e verdura, vestiti, cesti di vimini, mobili e chincaglieria varia. I ristoranti non mancano, chioschi e venditori di bibite neppure. Ma l’attrazione è il rio Lujàn e l’assortimento di battelli, motoscafi, barche a remi e canoe con cui visitare le isole e i canali che attraversano il delta come fosse un labirinto.

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La sua scoperta come luogo di svago risale a meno di duecento anni fa, quando i primi abitanti facoltosi di Buenos Aires cominciarono a trascorrere il tempo libero nelle grandi residenze di campagna che oggi ne illuminano il patrimonio architettonico. Furono istituiti anche circoli di canottaggio e costruiti magnifici edifici come il Tigre Club, di inizio ‘900, che oggi ospita il Tigre Art Museum e affascina chiunque lo ammiri dal fiume. Ma la colonizzazione per motivi di pesca e agricoltura è ben più antica e collegata alla fondazione della città di Buenos Aires, nel 1580. All’epoca il delta era pressoché disabitato dagli uomini, ma apprezzato dai giaguari. E così i conquistatori, esperti di armi ma non certo di zoologia, chiamarono l’intera area con il nome del felino più simile che venne loro in mente: la tigre.

(Repubblica.it, 27 novembre 2020)

 

 

"Peschiera" non esiste più: è stato coworking per architetti, artigiani e artisti

Le chiavi sono già state riconsegnate: “Peschiera” non esiste più. Per chi a Genova oggi ha trent’anni, è difficile non averne mai sentito parlare. Perché da quando nel 2013 questo spazio di coworking è sorto nei basamenti di un edificio nobiliare sopra piazza Corvetto, in via Peschiera 8 si sono alternate decine e decine di artigiani e artisti. Le porte degli studi si sono aperte ai loro amici, e così agli amici degli amici: ed è stato un fiorire di incontri, collaborazioni, amicizie.

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A dar nuova vita a questo antico ricovero per carrozze di Villa delle Peschiere, ex centro medico abbandonato, era stata l’intraprendenza di un gruppo di neolaureati della facoltà di architettura, desiderosi di avere uno spazio senza troppi fronzoli da adibire a ufficio ma anche a laboratorio. Due piani, tante stanze, spirito sbarazzino, dinamiche libertarie. Il luogo di lavoro era inusuale, ma è bene sgombrare il campo a dubbi: c’era un contratto d’affitto (che i proprietari dei locali hanno deciso di non rinnovare) e da mattina a sera a Peschiera si lavorava, anche il fine settimana.

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È lì che ha avuto sede il Gruppo Informale, team genovese di ricerca e sperimentazione in architettura partecipata e riuso che con una squadra di trentenni ha firmato la ristrutturazione del Mercato del Carmine, intrecciando nel corso degli anni collaborazioni con diverse realtà pubbliche e private genovesi, dal Teatro della Gioventù all’Università, sino agli allestimenti di locali sorti nel centro storico.

Intorno ai ragazzi del Gruppo Informale si è da subito radunato un microcosmo di liutai, illustratori, designer, artisti, piccoli editori, clienti, curiosi: a Peschiera si è lavorato il legno, dipinto, disegnato vestiti, stampato, progettato biciclette e forni in terra cruda, organizzato concerti e spettacoli teatrali. «Qui dentro siamo cresciuti, entrati da studenti freschi di laurea senza partita Iva, usciti professionisti e pure genitori», è il commento di tanti protagonisti ormai brizzolati di questo esperimento di lavoro fianco a fianco, consci che “Peschiera” è rimasto sempre un po’ sottotono rispetto alle potenzialità. Visto la notorietà raggiunta tra i coetanei genovesi, a un certo punto i ragazzi si erano pure costituiti in associazione per poter ospitare eventi. Tanto per fare un esempio: nel 2015 lì suonarono in forma privata lì gli Ex-Otago, per una raccolta fondi di quello che sarebbe diventato l’album del boom, “Marassi”.

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Ma alla fine non se n’è fatto niente, la gestione flessibile ha avuto la meglio. I compagni di coworking non si sono mai dati un organigramma, un ufficio comunicazione o un portavoce, ma d’altronde “Peschiera” non ha mai avuto nemmeno un nome ufficiale o una pagina Facebook. Pure il profilo Instagram è nato solamente a luglio, a trasloco già deciso, per liberarsi più facilmente della tanta mobilia accumulata. L’idea di una mostra finale, divenuta troppo rischiosa per la burocrazia e il distanziamento sanitario, si è ridotta a un’esposizione un venerdì di metà ottobre, poche ore il pomeriggio, pubblicizzata solo tra gli amici. Giusto in tempo per prendere le ultime cose, dare una sbirciata alle stanze ormai vuote e lasciarsi alle spalle i portoni di legno in via Peschiera 8: negli ultimi sette anni, è stato davvero raro trovarli chiusi.

 

 

 

Grandi viaggiatori, intervista a Emma Bonino. «Non siamo alberi, ma pesci che si muovono ovunque»

Non conta i Paesi che visita. «Non l’ho mai fatto», assicura. Eppure la senatrice Emma Bonino, leader di +Europa, potrebbe sbizzarrirsi. Settantuno anni, un turbante esotico che ormai è un distintivo, nella sua vita ha viaggiato ovunque. Per comizi e vacanze, in qualità di politico italiano ed europeo, insieme a attivisti radicali, amiche e fidanzati. Nel racconto della sua carriera c’è di tutto: pranzi a Cuba con Fidel Castro, visite ai campi profughi in Zaire, incontri semiclandestini in Myanmar, messe di Natale e Betlemme, sopralluoghi dopo i tornado in Honduras. E ancora: visite alle vittime delle mine antiuomo in Bosnia e Iraq, oppure nella Sierra Leone assediata dalla rivoluzione. Per non parlare di quella fotografia che la ritrae mentre si cala con una corda da un elicottero in mezzo all’Oceano Atlantico, o in Guinea Bissau durante il primo incontro tra il governo e la fazione dei ribelli. Nella sua vita c’è «tanto Medio Oriente e tanta Africa», dice, «ma poca Asia e America del sud». L’Italia e l’Europa per lei sono quasi senza segreti, tanto le ha attraversate in ogni angolo tra seminari e proteste di piazza. Sempre con la stessa convinzione: «Viaggiare insegna molte cose». E un dubbio: «Credo di non essere mai stata a Lucca».

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999

Emma Bonino, esiste un momento nella sua vita in cui ha pensato: “Voglio diventare una viaggiatrice”?

A 16 anni, quando la scuola organizzò una gita di qualche giorno in Francia. Mi piacque moltissimo sentire la gente parlare in modo strano, diverso da come ero abituata. Da allora ho viaggiato per turismo, lavoro, impegno politico e sociale. Mi ha sempre incuriosito. E il mio viaggiare fisico è sempre stato accompagnato da un viaggio interiore.

Lei è stata ministra degli esteri del governo Letta tra il 2013 e il 2014,  commissario europeo per gli aiuti umanitari, la pesca e la tutela dei consumatori dal 1994 a 1999. Che cosa significa viaggiare a livello istituzionale?

Dà una profonda conoscenza del mondo politico, ma si viaggia così di corsa da perdere il resto della società. Si entra in albergo, si fa la riunione, si torna a casa. E’ una parte del mondo anche questa, ma è un mondo diverso.

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999


C’è un’area geografica che l’ha affascinata particolarmente, dove vorrebbe vivere?

Vivo in Italia e sto benissimo, ma mi sono trovata molto bene anche nei cinque anni passati al Cairo. Dopo la sconfitta bruciante alle elezioni del 2001 mi serviva un po’ di distacco, tutti mi consigliavano di passare un periodo a Londra, altri negli Stati Uniti. Ma io scelsi l’Egitto.

Come mai?

Perché mi ero resa conto che conoscevo molto il mondo ma era a digiuno di Mediterraneo. Marco Pannella mi spinse verso questa scelta. E così dal 2001 alla fine del 2005 ho abitato al Cairo, dove sono stata visiting professor all’Università americana.

Ha vissuto anche in altri Paesi?

Nel 2002 sono stata diversi mesi in Ecuador alla guida di una missione di osservatori dell’Ue per monitorare le elezioni. Sono stata per lavoro anche in Afghanistan. La prima volta nel 1997, quando ho lanciato la campagna “Un fiore per donne di Kabul”.

(Emma Bonino, allora commissario europeo, guida una missione a Kabul e a Faizabad. Da quando un anno prima hanno preso il potere, i Talebani impongono un regime oppressivo sulle donne. Le donne afghane non sono autorizzate a uscire di casa senza indossare il burqa, né possono parlare in pubblico; sono  tagliate fuori dal mondo del lavoro e dall’istruzione, non possono usufruire dell’assistenza sanitaria. La campagna culmina in occasione della Giornata internazionale della donna l’8 marzo 1998, con manifestazioni a Bruxelles, Roma, Mosca, New York).

Sono poi ritornata sei mesi in Afghanistan nel 2005 – continua Emma Bonino - quando ero capo della missione di osservazione elettorale dell'Unione Europea. Poi ho vissuto a Bruxelles e ovviamente a Roma, dove ho la casa. Ma è casa mia anche Bra, in Piemonte, dove sono nata.

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999

Nella brochure di candidatura di Emma Bonino a presidente della Repubblica, nel 1999

Esistono luoghi in Italia e in Europa che una giramondo come lei non ha mai visitato?

Detestando il freddo ho sempre trascurato il Trentino e la Val d’Aosta. E poi credo di non essere mai stata a Lucca. In Europa invece conosco molto poco la Polonia. Recentemente volevo andare a Danzica dal sindaco Pawel Adamowicz (morto il 14 gennaio, dopo essere stato accoltellato durante una manifestazione pubblica, ndr). Lo avevo incontrato a un convegno in Vaticano sugli immigrati, lui mi aveva invitato: ma purtroppo non ho fatto in tempo a organizzarmi.

Lei ha conosciuto anche la polizia di diversi Paesi, in occasione di diversi arresti. Come è andata?

Nel 1987 ho passato una notte in carcere in Polonia, fui separata dagli altri militanti maschi e poi espulsa dal Paese. Faceva un freddo da morire. (Emma Bonino stava manifestando a Varsavia contro la dittatura comunista del generale Jaruzelski e a favore di Solidarnosc, mentre azioni analoghe per la libertà erano compiute da esponenti radicali nelle altre capitali del Patto di Varsavia). Poi sono stata arrestata negli Usa, a New York. (Nel 1990 e nel 1991 Emma Bonino viene arrestata a New York in con il radicale Marco Taradash, mentre distribuisce siringhe sterili per denunciare il divieto che impedisce ad oltre 175.000 tossicodipendenti sieropositivi della città di acquistare siringhe senza la ricetta medica). E poi mi hanno arrestato con l’intera delegazione dell’Ue che guidavo in Afghanistan, nell’autunno del 1997. Ci accompagnarono con le armi in un carcere a cielo aperto nel centro di Kabul, che poi quando sono tornata a vivere in Afghanistan ho visitato. Lì era impossibile dialogare con i carcerieri. E’ stato un momento di grande tensione: nessuno sapeva come sarebbe finita.

Una persona che è stata in Paesi in guerra, con rivoluzioni in corso, di che cosa ha paura quando viaggia?

Non è mai bene aver paura, di nulla. Ma è sicuramente essenziale essere prudenti, anche se molto dipende dai Paesi che si visitano. In genere è bene viaggiare leggeri. Evitare di fare gli spiritosi. E stare attenti all’acqua che si beve.

Esiste un viaggio che le è rimasto nel cuore?

I tre mesi in barca a vela all’inizio degli anni Ottanta, con il mio compagno dell’epoca. Abbiamo navigato nei Caraibi, da Martinica sino a Grenada. Era una situazione di grande inesperienza, senza radar né gps.  Quello non è stato solo un viaggio in mari blu spettacolari, ma un viaggio interiore. Il senso del tempo era cambiato, il silenzio era diventato un modo di vivere.

Per una persona della sua età, che cosa significa l’Europa di oggi?

Basta un dato: ci sono 4 milioni di persone coinvolte nel progetto Erasmus, più le relative famiglie che hanno vissuto questa esperienza. Chi conosce l’Europa, la ama.

Gli occidentali volano sempre più spesso da una parte e l’altra del pianeta per turismo. Al tempo stesso però, tante persone povere non possono lasciare il proprio paese nemmeno se muoiono di fame. Non è un paradosso?

È un paradosso che ci è sempre stato. Chi poteva, già ai tempi di Cristoforo Colombo si muoveva. Andando in Paesi con più problemi del nostro, mi è venuto più volte da fare un pensiero tremendo: temo che molto spesso la povertà degli altri sia il nostro esotismo. D'altronde la mobilità è globale, le persone non sono alberi con le radici, ma pesci che si muovono ovunque, come nel mare. Non li si può fermare.

(TPI, 6 giugno 2019)

 

 

 

«Io, operaio comunista in ferie in Corea del Nord»

«Mi piace viaggiare», dice. Poi aggiunge: «Sono un operaio.  E sono comunista». Quarantacinque anni, posto di lavoro in un’officina navale a Genova, per Giacomo Marchetti le ferie di settembre sono state estreme: nove giorni in Corea del Nord. Un Paese di cui si sa ben poco, a parte che è una dittatura. I reportage indipendenti sono pochi, i racconti dei media internazionali uniformi: un regime comunista da temere per i test atomici e il suo leader sanguinario, Kim Jong-un. «Ho sempre viaggiato in luoghi meno battuti, dai campi profughi in Palestina e Libano al Donbass in Ucraina», racconta Marchetti, che scrive di politica internazionale per siti di sinistra come Contropiano, Carmilla e l'Antidiplomatico.  «Volevo capire quanto la visione che abbiamo della Corea del Nord fosse distorta dalla propaganda occidentale. E francamente penso sia così».

Juche Tower, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Juche Tower, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Marchetti ha visitato la Corea con un gruppo di amici nell’unico modo possibile, tramite agenzia. Esistono infatti tour operator cinesi e nordcoreani che organizzano il viaggio nei minimi dettagli con pranzi, cene e pernottamenti. Il gruppo ha visitato il monte Myohyang, le città di Kaesong, Wonsan, la costa a Nampho e ovviamente la capitale Pyongyang: una città moderna e senza traffico perché praticamente non ci sono auto, dove le persone si spostano a piedi, in tram e metropolitana.

Piazza Kim Il Sung, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Piazza Kim Il Sung, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Le regole del viaggio erano chiare da subito: non si potevano fotografare soggetti militari mentre le statue dei leader dovevano essere ben ritratte. Le due guide, obbligatorie, hanno seguito il gruppo in ogni spostamento.  Una limitazione impensabile per altri paesi del mondo: può far sorgere il sospetto che servano per controllarsi a vicenda, ed essere certi che i turisti non vedano nulla che il regime non vuole né interagiscano in modo incontrollato con la popolazione. In Corea il gruppo ha osservato la vita quotidiana in città e in campagna, rimanendo stupita dal tono di voce con cui le persone parlano tra di loro, molto più basso rispetto a quello italiano. Per i pasti si è privilegiato la cucina locale, che prevede una dozzina di tazzine con tanti piccoli assaggi di verdure, carne e pesce.  Assenti i farinacei e l’olio di oliva, ricca la presenza di tofu e del piatto nazionale a base di verza macerata. Le guide hanno organizzato la visita a uno spettacolo con le celebri coreografie di massa e una visita in un centro doposcuola dove i ragazzini si dedicano all’arte o alla musica. Al gruppo hanno mostrato i tanti parchi, affollati da persone che dopo il lavoro si svagano con attività sportive e le immancabili coreografie. «Certo, a Pyongyang la sera non c’è la movida», racconta Marchetti. «Però non mancano ristoranti e locali dove si beve birra e vino. Siamo anche andati in una pizzeria italiana».

Militari e sposi rendono omaggio ai due leader, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Militari e sposi rendono omaggio ai due leader, Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Premettendo che l’idea politica di Giacomo Marchetti è chiara,  la Corea del Nord lo ha affascinato per la pianificazione delle città e l’attenzione riservata all’educazione dei bambini. «Da noi i centri urbani sono svuotati di vita a uso e consumo della classe medio alta e dei turisti, il resto è una periferia che va per gradi verso lo sfacelo», spiega. «Per noi occidentali è scioccante una società senza l’iperconsumo, ma l’essenziale in Corea non manca. Il benessere della capitale non è lo stesso delle campagne, dove comunque ci sono strutture che garantiscono la dignità alle persone».

Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Pyongyang. Foto di Giacomo Marchetti

Sulla possibilità che le guide nordcoreane mostrino ai turisti una realtà edulcorata del Paese, Marchetti non è d’accordo. «In occidente le libertà sono garantite in modo formale e praticamente non abbiamo più garanzie sociali, ma al tempo stesso non vogliamo riconoscere che esistono altri sistemi economici. Continuiamo a pensare che la Corea sia un paese “eremita” quando invece ha rapporti stretti con la Cina, che da sola fa un miliardo e trecento milioni di persone, e poi relazioni bilaterali con Russia, Cuba, Venezuela, Vietnam. La riteniamo erroneamente “un paese fuori dal mondo”, ma siamo noi ad averne una visione distorta: pensiamo di rappresentare la sua totalità, e invece siamo solo il mondo occidentale».

(L’Huff post, 21 ottobre 2019)

Il sogno di Nilufar l'uzbeka, che a Genova ha visto per la prima volta il mare

Scruta l’orizzonte, il mare è blu scuro, i suoi occhi verdi. Ripete una sola parola: «Meraviglioso». Nilufar Narzieva ha 25 anni e vive in Uzbekistan, a Samarcanda, ma per uno strano scherzo della sua vita si ritrova in spiaggia a Genova, a Vesima. «Sono felice», dice. «Aspettavo da tanto questo momento». Nilufar non riesce a staccare gli occhi dalle onde che sbattono sulla battigia. Quando al tramonto il sole rende l’acqua di un brillio accecante, il suo stato d’animo è parecchio confuso. Non la smette di sorridere. E come potrebbe essere altrimenti: è la prima volta che vede il mare.

Nilufar a Vesima

Nilufar a Vesima

«Era il mio sogno», racconta Nilufar, per gli amici occidentali Nelly. «Ma non è stato semplice da realizzare». Il primo tentativo risale al 2013 quando sposa suo marito Khurhsed - figlio del proprietario dell’albergo in cui lavora - e pianifica un viaggio di nozze in Europa. Ma di lì a poco Nilufar si ritrova incinta del primo figlio e il piano sfuma. Nel 2016 la visita a Samarcanda di due turisti genovesi riaccende la fantasia. «Vienici a trovare», le dicono. «E non ti preoccupare per i soldi: sarai nostra ospite». Nilufar mantiene il rapporto di amicizia sui social e mese dopo mese risparmia per il volo intercontinentale che la porterà in Italia, ma nell’estate del 2017 il viaggio nuovamente non si riesce a organizzare. «Se sei di nazionalità uzbeka è davvero troppo complicato ottenere un visto per l’area Schengen», spiega. «Bisogna prendere appuntamento nell’ambasciata italiana nella capitale, Taskhent, dove al telefono non risponde mai nessuno e le code sono lunghissime. E oltretutto non c’è la certezza di ottenere il visto: il rischiò è spendere un sacco di soldi in viaggi in treno per andare all’ambasciata e poi non concludere niente». E infatti Nilufar non riesce nemmeno a prendere un appuntamento. Ma non per questo smette di pensare all’Italia: e grazie al suocero che quest’anno decide di regalare a lei e a suo figlio quel viaggio di nozze mai fatto, ecco che il sogno si trasforma in un biglietto aereo e in un visto.

La prima volta di Nilufar in mare, a Genova Vesima

La prima volta di Nilufar in mare, a Genova Vesima


Quest’estate Nilufar e Khurhsed viaggiano tra Roma, Firenze, Pisa, Venezia e Milano, con quella garanzia di restare una settimana a Genova e andare alla scoperta del mare. «A parte da bambina quando la mia famiglia si è trasferita in Russia, a Perm, non sono mai uscita dall’Uzbekistan», racconta. E l’Uzbekistan, è un paese piatto e arido incastrato in Asia centrale. Nilufar parla un italiano ricco e preciso, e non solo perché come tutti i suoi connazionali ha sempre guardato i film con Adriano Celentano e ascoltato alla radio Al Bano, Pupo, Toto Cutugno, i Ricchi e Poveri. «Al liceo turistico ha scoperto che un sacco di parole sono simili all’inglese, così all’Università mi sono iscritta al corso di filologia italiana».

Nilufar a Camogli con la sua amica genovese Selena

Nilufar a Camogli con la sua amica genovese Selena

Ed è proprio grazie all’italiano che riesce a chiacchierare con i turisti italiani ospiti del suo albergo, l’hotel Furkat. Ora che è tornata in Uzbekistan ne avrà da raccontare, a partire dalla basilica di San Pietro a Roma che più di tutto l’ha impressionata. E poi le Cinque Terre, la laguna veneta, la torre di Pisa, il Duomo di Milano. Il suo progetto di una gita a Montecarlo per ammirare i grattacieli è saltato, ma pazienza, Nilufar non si scompone. «In Italia voglio tornare. E la prossima volta sogno di andare sulle Alpi: perché a essere sincera non ho mai visto nemmeno le montagne».

Nilufar alle Cinque Terre

Nilufar alle Cinque Terre

HuffPost, 12 settembre 2019

 

 

 

Richi, quel gran genio del mio amico

Ha sempre bruciato le tappe, Richi. Che si trattasse di suonare una ballata di Chopin, dirigere un cantiere o imparare a costruir biciclette, lui arrivava prima degli altri e nel farlo era sempre sé stesso: t-shirt, capelli ribelli, barbetta bionda. Riccardo se n’è andato il 10 giugno, in 32 anni è riuscito a essere di tutto: architetto, pianista, meccanico, falegname, snowboarder, viaggiatore, ecologista, vegetariano, velista, sci alpinista. Da nove mesi era marito di Alessandra e tra poco sarebbe diventato padre, del bimbo è stato lui a scegliere il nome: Elio.

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«Richi illuminava ogni posto dove andava», ripete la mamma Laura, e non bisogna pensare che fosse di parte perché Riccardo Rossi era davvero così. Nato nel 1986 e cresciuto nel quartiere genovese di Pegli, ha frequentato il liceo classico Mazzini con la semplicità che hanno in pochi. Bravura innata nelle materie scientifiche, poco studio per eccellere in quelle letterarie, una matita in mano e ogni fantasia prendeva forma. Nessuno ha mai capito perché trascurasse il pianoforte dopo il diploma al conservatorio, ma forse aveva ragione lui, nella vita ci sono troppe cose da fare: una laurea in architettura, viaggi dalla Cambogia al Messico, camminate sui monti, una Fiat 500 e una Ducati da riparare di continuo, la patente nautica e la passione per le biciclette.

Foto di Alberto Carmagnani

Foto di Alberto Carmagnani

Con i compagni di corso ha fondato il Gruppo Informale, un laboratorio di progettazione con poche parole d’ordine: riuso, riciclo, autoproduzione. Riccardo era nel team che ha ridisegnato via Cornigliano, da inizio anno era assistente alla direzione lavori per la realizzazione del porto turistico di Ventimiglia e del retro-porto di Vado. «Ma più di tutto a lui piaceva smanettare e scoprire come funzionavano le cose», concordano gli amici.  Perché se c’era da sporcarsi le mani d’olio o di fango, lui era felice. Da mesi recuperava la casa del nonno a Viano, in Lunigiana, dove aveva liberato le fasce dai rovi e piantato degli ulivi. «Vorrei vivere lì», diceva, ed era uno dei suoi tanti sogni: un giorno avrebbe comprato un camper e un garage in riva al mare, suonato il violino, preso il brevetto di volo e finalmente sarebbe diventato medico come la mamma Laura Peirano, la sorella Roberta e il padre Giampaolo, scomparso da una decina d’anni.

Il primo di giugno però è arrivato il malore, per una settimana decine e decine di amici hanno affollato il reparto dove era ricoverato. Dall’ospedale dicono che il suo cuore batte già dentro un altro corpo, e c’è da giurare che lui ne sarebbe orgoglioso. D’altronde gli eroi sono giovani e belli, ed è proprio così che Richi resterà per sempre nei ricordi di tutti: abbronzato, con i capelli al vento, la barbetta, un dannato mazzo di chiavi appeso alla cintura e quell’amore così grande per la sua splendida Ale.

Foto di Alberto Carmagnani

Foto di Alberto Carmagnani