I grattacieli spuntano in mezzo al deserto, una terra gialla e rugosa solcata da autostrade e schiere di casette basse che arrivano sino al mare. Dall’alto l’aeroporto di Baku sembra una freccia argentata, ed è proprio come la città: futuristico, pretenzioso, scintillante. Favoloso ingresso per un Paese che vive da dieci anni una crescita vertiginosa, monumento a una ricchezza firmata gas e petrolio.
Baku è la metropoli più grande e cosmopolita del Caucaso meridionale, un ingorgo lungo chilometri dove malconce auto sovietiche sono bloccate nel traffico insieme a Suv fiammanti, circondati da palazzi russi tirati a lucidi e strade pulite come un salotto. Per chi ha tanti soldi Baku è come un lunapark, per chi viaggia in economia una corsa a ostacoli. L’unica scelta è prenotare una stanza in anticipo, visto che ostelli e pensioncine sono praticamente inesistenti. Anche mangiare (a poco prezzo) può risultare problematico: prima di trovare un kebab si sorpasseranno hotel di lusso, boutique esclusive, negozi di design e concessionari della Ferrari. Il palazzo del Soviet, color sabbia, è proprio in riva al Mar Caspio e alle sue acque dai riflessi smerigliati di petrolio. Le strade sono enormi, con Maserati e Aston Martin che sfrecciano come fossero in pista senza badare ai semafori. La città antica è patrimonio dell’Unesco ed è sormontata dai grattacieli più folli della città, le Flame Towers: tre torri a forma fiamma che appena scende il tramonto si illuminano e diventano color del fuoco.
Nella penisola di Abseron, nella periferia di Baku, appaiono le prime pompe di petrolio. Le più vicine al centro sono nello squallido sobborgo di Suraxani, un quartiere stretto tra la ferrovia e campi deturpati dalle industrie. Scheletri arrugginiti succhiano incessantemente il sottosuolo e addirittura circondano le abitazioni. L’odore del quartiere è dolciastro e malsano, la tentazione di fotografare è irresistibile ma bisogna fare attenzione perché è vietato e i vigilanti dei campi sono inflessibili. Se si prosegue verso nord il paesaggio si fa apocalittico, con plotoni di derrick (le torri di perforazione), tralicci, fabbriche dismesse e ciminiere su terreni avvelenati da scorie e rifiuti.
I centri abitati sono pochi sino a Quba, una cittadina vicino alla frontiera con la pericolosa provincia russa del Daghestan. Quba è famosa per la produzioni di tappeti e la coltivazione delle mele, come si capisce dai tanti venditori con le ceste colme ai lati delle strade. Tra le vallate popolate da pecore e pastori i paesaggi si fanno grandiosi e le alte montagne del Grande Caucaso circondano l’orizzonte con vette spigolose e innevate. L’antico paesino di Xinaliq, 2335 metri sul mare (il più alto di Europa, se si considera l’Azerbaijan parte del continente) è a una cinquantina di chilometri da Quba. E’ importante calcolare almeno due ore di tornanti da percorrere in jeep, tra gole rocciose che si sgretolano sulla strada e salite inverosimili. Gli abitanti di questi monti inseguono le poche automobili di passaggio per vendere miele, sciroppo di rosa, cipolle e babucce di lana. Il piccolo villaggio di Laza è a una giornata di cammino da Xinaliq ma l’escursione è vietata (come molte altre) e le montagne sono presidiate dai soldati: il confine con la Russia è vicino.
Per visitare qualsiasi altra parte dell’Azerbaijan bisogna ritornare a Baku. I petroglifi e i vulcani di fango di Qobustan sono le destinazioni più gettonate dalle agenzie perché a un’ora di taxi dalla città. Dalla stazione degli autobus di Baku partono i mezzi a lunga percorrenza sino all’Iran e la Georgia: un viaggio in marshrutka, il furgoncino tipico dei paesi ex-Urss, rende il viaggio veloce ma anche più pericoloso perché gli autisti guidano come pilota di formula 1. In tre ore di paesaggi aridi che si trasformano in colline alberate si arriva a Ismaily, una città brutta e sparpagliata da cui partono i camioncini per le campagne. Il paese più interessante è Ivanovka, un villaggio con case di legno fondato a metà Ottocento da un gruppo di russi fuggiti dallo zarismo perché di religione molocana, una setta del cristianesimo. A Ivanovka si respira ancora l’aria dell’Unione Sovietica, le scritte in russo e i campi comuni levano ogni dubbio.
L’ultima tappa prima di abbandonare l’Azerbaijan è Shaki, cittadina turistica adagiata tra le montagne a due ore dal confine con la Georgia. I ristoranti sono pochi ma preparano i migliori “piti” del Paese, zuppe di ceci e carne cotte nel grasso di pecora.
In cima alla collina le mura della fortezza circondano il Xan Sarai, il Palazzo del Khan che quando fu terminato nel 1762 era solo uno delle decine nella cittadella. Ora è l’unico sopravvissuto. La facciata è decorata con motivi geometrici blu, turchese e ocra, all’interno la luce filtra dalle vetrate e illumina le pareti di legno intagliate e pitturate con scene eroiche di guerra e massacri. Riporta al Caucaso del passato, quando i russi non erano ancora arrivati e le montagne erano campi di battaglie tra mongoli e persiani. Nel vicino caravanserraglio c’è uno degli hotel più belli di tutto l’Azerbaijan, il settecentesco Caravanserai Hotel, con una giardino interno grande come una piazza e stanze con i soffitti a volta in mattoni di pietra. Appena fuori, di fronte al pesante portone di legno, c’è uno dei tanti ritratti di Heydar Aliyev, l’ex presidente dell’Azerbaijan – padre dell’attuale presidente Ilham – osannato con fotografie giganti e manifesti in tutto il Paese.