Questo luogo non è adatto a chi a chi detesta la polvere, il sudore che gocciola dai gomiti e le calche incontrollate. Non è adatto a chi ha paura delle armi, del terrorismo islamista o anche solo di chi ha la barba lunga. A chi non si fida di lasciare i propri bagagli a degli sconosciuti e a chi pensa che, in fin dei conti, viaggiare per il mondo non obbliga a vederne ogni pertugio. Ma è invece perfetto per tanti altri viaggiatori: quelli che adorano l’ebbrezza del remoto, le manifestazioni popolari, il caldo torrido, la musica sparata a tutto volume. Quelli con il fascino dei confini, degli eserciti, delle divise, delle questioni geopolitiche irrisolte. E per quelli in viaggio nell’estremo nordest dell’India, curiosi di spingersi nell’ultimo luogo del pianeta che probabilmente pensavano di visitare: il Wagah Border, il principale punto di frontiera – talvolta l’unico aperto - tra Pakistan e India.
Non sarà un’esperienza solitaria, sia chiaro: alla cerimonia dell’ammaina bandiera che ogni giorno va in scena, tra le migliaia di spettatori indiani spuntano decine e decine di turisti stranieri. Desiderosi di sbirciare il punto di confine tra due Paesi che si odiano da 70 anni, da quando nel 1947 nacquero come indipendenti in seguito al collasso dell'impero coloniale britannico. Dopo tre guerre, 70 mila morti e una guerriglia mai sopita sui monti, ogni pomeriggio al tramonto l’ostilità tra India e Pakistan viene ricordata con uno spettacolo nazionalista di massa. Le guardie di frontiera fanno una parata con gesti energici, estremi, aggressivi, sincronizzati: una combinazione di involontaria comicità e di seria rivalità nazionale per scaldare il pubblico, ricevere applausi scroscianti e cori di sostegno.
Le agenzie e i procacciatori di affari che nella città di Amritsar organizzano le escursioni in taxi al Wagah Border si sprecano. Si parte nel primissimo pomeriggio, ci si stipa in sei o sette su un’automobile e si imbocca il rettilineo lungo 30 chilometri che porta a uno dei confini più tesi del pianeta. La linea è protetta da un alto reticolato che si estende per 50 chilometri, elettrificato di notte e integrato da potenti fari e da torri di guardia ogni cento metri. L’atmosfera non è delle migliori, e i motivi sono tanti: clacson, baracche, camion, cambiavalute, spazzatura, cani randagi, ladruncoli, venditori tabacco, blindati dell’esercito. Il tutto condito con la delirante folla indiana e una temperatura che d’estate sorpassa i 40 gradi.
I taxi lasciano i turisti a centinaia di metri dal confine, in un parcheggio sterminato e affollato come un formicaio. A più di tre ore dall’ammaina bandiera le code per accedere all’arena della manifestazione sono interminabili. Dopodiché ci si incolonna nuovamente per sorpassare i primi grossolani controlli di sicurezza e infine per impilarsi nella mastodontica coda per il metal detector: dove gli uomini vengono separati dalle donne, perquisite da altre donne dietro un telo nero.
Tutto questo mentre si tengono in mano la macchina fotografica, il passaporto, la guida, le bottiglie d’acqua, eventuali foulard o cappellini: perché ai controlli non si può portare con sé nessun genere di borsa, nemmeno la custodia della macchina fotografica. Sorpassata la calca ci si può sedere in una sorta di anfiteatro costruito a ridosso del confine, pronti ad aspettare per ore la manifestazione con un pensiero fisso: il proprio zaino, con tutte le cose indispensabili che conteneva, non è custodito in un «deposito bagagli» come sostengono le agenzie di Amritsar che organizzano l’escursione e come scrive pure la Lonely Planet. Ma è ammucchiato in mezzo a decine e decine d’altri zaini in una delle tante baracche che offrono il servizio di deposito, in un punto imprecisato di quel rettilineo chilometrico che porta alla frontiera. A decidere in quale baracca fermarsi è il tassista, lo scambio è veloce: in cambio dello zaino si riceve un fogliettino con un numero scritto a mano. Per i turisti occidentali nell’arena, il pensiero ansiolitico è lo stesso: «Quando si ritornerà a reclamare lo zaino, se non è stato rubato, pure la baracca potrebbe essere già stata smontata e portata chissà dove». Il problema passerà presto in secondo piano per i viaggiatori non ancora a conoscenza dell’attentato che nel 2014, in occasione della manifestazione, ha provocato 60 morti e 100 feriti dal lato pakistano.
A far dimenticare ogni cattivo pensiero ci pensa l’atmosfera di giubilo nazionalista degli indiani, in tripudio alla vista dei loro soldati in divisa color kaki con un pennacchio rosso in testa. Tra cori da stadio, balli e coreografie in stile Bollywod le tre ore di attesa sotto il sole volano in un lampo. E’ la stessa sensazione che si prova durante la cerimonia: venti, trenta minuti al massimo. I soldati marciano, lo speaker aizza la folla, la bandiera scende, il sole tramonta, il cancello sbatte. Fine. Di corsa l’arena si svuota. In mezzo a una folla di migliaia di persone parte la lotta per ritrovare il proprio tassista. Che non solo è stato pagato in anticipo per il ritorno: è l’unico a conoscere la posizione della baracca dove sono stati lasciati i bagagli.
(L’Huff Post, 19 settembre 2018)